Racconti da Mbweni

Nel corso degli anni, l’Associazione Ruvuma Onlus ha proseguito la propria opera, interpretando in modo ampliato l’intento iniziale di dare ai tanzani un migliore accesso a sanità e formazione professionale, sia nell’Ospedale, chiedendo ai volontari italiani di svolgere la propria opera sempre affiancati da colleghi – medici, infermieri, tecnici – tanzani, sia fornendo annualmente borse di studio a studenti della Scuola Professionale di Mtongani, sia attivandosi in progetti poi proseguiti da altri enti e altre persone, grazie alla credibilità acquisita agli occhi delle autorità tanzane. è doveroso e consolante ricordare che in Tanzania come del resto in altri paesi africani, molti italiani laici individualmente o in collaborazione con Congregazioni e Ordini Missionari, dedicano volontariamente le proprie ferie a lavori di ogni genere e ad addestrare la popolazione locale in varie attività manuali: falegnami brianzoli, fabbri toscani, carpentieri veneti e muratori bergamaschi costituiscono una formidabile quanto eterogenea umanità accomunata dal desiderio di portare aiuto e solidarietà ai poveri d’Africa.

Rodrigo Rodriquez, presidente Associazione Ruvuma Onlus

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Milena Cimatti, Infermiera

Da sempre sognavo un’esperienza in Africa e grazie all’associazione Ruvuma , ho potuto visitare l’ospedale di Mbweni, in Tanzania. L’ospedale è ben organizzato, offre tanti servizi dalla radiologia al laboratorio analisi, al reparto di pediatria e maternità.

Tutti gli operatori che prestano servizio al suo interno sono sempre sorridenti e disponibili all’ascolto. La giornata inizia alle 7.00, quando come sottofondo si sentono le voci allegre dei bambini che arrivano scuola dopo una lunga camminata. Non tutti loro possono permettersi l’autobus, molti si fanno ore di cammino. Anche questa è Africa!
Noi volontari ci troviamo tutti insieme per la colazione, i primi giorni si è tutti un po’ timidi, non si parla molto, ma dopo pochi giorni tutto cambia, perché la motivazione che ci ha spinto fino qua è comune e la collaborazione diventa molto forte. Al termine della colazione, indossiamo la divisa e andiamo in ospedale.

La prima cosa che faccio quando arrivo è entrare in sala operatoria e, dopo aver salutato le ragazze, mi reco a far visita ai pazienti operati il giorno precedente. Mentre cammino lungo i corridoi vedo nelle camere le infermiere che parlando con i pazienti. Parlano in Swahili, non capisco cosa stiano dicendo ma dal tono di voce il dialogo è sereno. Queste immagini si scolpiscono nella mia mente, vorrei poter un giorno entrare in una delle nostre corsie e rivivere questa scena, ormai sempre più rara a causa nei nostri ritmi frenetici.

Al termine del giro rientro in sala operatoria, la seduta sta per iniziare, i chirurghi si stanno lavando, queste sono tutte fasi che avvengono ovunque ma che qui rispetto all’Italia, assumono un aspetto diverso, noi viviamo di consensi, lunghe pagine piene di indicazioni, controindicazioni effetti collaterali, di procedure per l’identificazione del paziente e tanta altra burocrazia.

Anche in Tanzania si fa tutto questo, ma con semplici parole ed in poche righe. La giornata procede, e il caldo si fa sentire nonostante l’aria condizionata presente in sala operatoria. Al termine delle attività, noi volontari ci ritroviamo insieme, questi momenti sono utili per confrontarci, per esprimere le nostre idee, i nostri pensieri, le nostre emozioni. Il trovarsi catapultati in una realtà simile alla tua ma, al contempo tanto diversa, ti riporta alla memoria quanto quei piccoli gesti quotidiani, come un semplice saluto, una stretta di mano, non siano gesti rituali di buona educazione ma gesti che riacquistano il significato di “prendersi cura”.
I giorni passavano, non so quanto io possa aver dato loro, ma so quanto loro hanno dato a me…

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Davide Falcioni, giornalista e fotografo

Josephine aveva 13 anni. Un giorno si offrì di accompagnarmi in giro per Mbweni, tra le case delle famiglie alle quali avrei voluto scattare qualche foto. Sapevo bene che avrei dovuto ricompensarla in qualche modo, così al primo chiosco di bibite comprai due Pepsi: una per me, una per lei.

Josephine dunque mi portò fin dentro le piccole baracche degli abitanti di Mbweni. Ogni volta mi introduceva spiegando – immagino – che ero un fotografo al servizio dell’associazione Ruvuma, che stavo con il gruppo dei medici; dall’altra parte il più delle volte mi accoglievano con un sorriso.
Io chiedevo loro di comportarsi con naturalezza: se stavano cucinando una scodella di riso, che continuassero a farlo; se stavano su un carretto trainato da una mucca rinsecchita, che non scendessero, se stavano prendendo dell’acqua da un pozzo, che non si distraessero guardando il mio obiettivo.

Volevo documentare la vita intorno all’ospedale: l’inettitudine di una manciata di giovani appollaiati davanti al cancello dell’ospedale, il lavoro febbrile delle mamme con i loro figlioletti, le speranze di un gruppo di giovani allevatori. Insomma, tutto quello che si muoveva e animava la comunità di Mbweni del quale, in fondo, l’ospedale era diventato negli anni il vero punto nevralgico.

Trascorsero ore e ore. Josephine mi accompagnava, paziente e divertita, di casa in casa, spiegandomi con le poche parole che masticava di inglese cosa stessero facendo le persone. Le offrii un’altra Pepsi, al solito chiosco. La offrii anche a una dozzina di bambini accorsi come al solito per giocare con me. Poi la riaccompagnai verso la sua, di casa.

C’era la madre, intenta a lavare i panni; il padre stava seduto sull’uscio; il fratellino gattonava tra le galline; mi offrirono da bere, ma per precauzione rifiutai quell’acqua di certo non potabile. Mi fecero accomodare, con calma. Josephine si mise tra me e suo padre. Guardò l’uomo, gli fece un cenno, e quello mi fissò: “Bene, amico: ora che sei stato con Josephine tutto questo tempo ti andrebbe di sposarla?

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Federica Sfogliaferri, dottore specializzata in Anestesia e Rianimazione

Era da tempo che volevo fare un’esperienza in Africa e finalmente l’ho fatta! Grazie all’amico e collega, “Babu” Giuseppe (il dr. Travaglini) ho conosciuto l’ospedale di Mbweni. Descrivere le sensazioni che si provano non è semplice, perché il carico emotivo è talmente forte che qualsiasi parola rischierebbe di banalizzare tutto. è quello che si vede, che si vive, che ti fa sentire importante; non tanto perché tu sai fare cose in più, o perché conosci tecnologie più avanzate, ma per i rapporti e le relazioni che si instaurano, rapporti semplici, veri, vivi, umani, sentiti.

Sicuramente non si ha l’oppressione del tempo come nei nostri ospedali e così si riesce ad ascoltare, sorridere ed essere spontanei, ad avere rapporti umani, cose che da noi ormai passano in secondo piano. è diverso lavorare qui: meno tecnologie e presidi avanzati a cui siamo abituati, ma sicuramente un gran rispetto per il malato, in quanto persona prima di tutto, con l’accettazione della malattia e la consapevolezza della proporzionalità delle cure.

Tipico l’esempio della bambina di 10 anni con malaria encefalica, con crisi convulsive e coma che ho assistito ventilando manualmente per ore nel corridoio, senza alcun monitoraggio. Secondo i nostri standard occidentali avrebbe ricevuto una ventilazione invasiva con intubazione e terapia intensiva, ma anche se avessimo deciso di intubarla dove si poteva successivamente assisterla se avesse avuto bisogno di una terapia intensiva? Ho capito che è fondamentale proporzionare le cure alla disponibilità delle terapie e non solo alla teoria. Ci hanno lasciato sole io e Milena ad assisterla. Mi sono sentita impotente, non ero armata della nostra tecnologia, avevo paura che la bambina non ce la facesse, invece, lo dico con una punta di orgoglio, iniziando con la assistenza respiratoria anche la terapia antimalarica in vena , si è ripresa completamente ed è stata dimessa a casa.

Il mio compito quale è stato? Ho fatto un po’ di tutto e niente, ma spero di essere stata almeno un po’ utile nel continuare il progetto formativo, affinché il personale locale riesca a continuare la preparazione e raggiungere l’autonomia. Il mio compito è stato soprattutto quello dell’infermiera di anestesia, ho conosciuto in Dotto, l’Anestesista, una grande persona, sveglia, motivata e recettiva, ma soprattutto molto paziente nel sopportare tutti noi volontari che a volte pensiamo di fare i “professori” con tutte le verità in tasca. è stata una gran bella esperienza che spero di ripetere, perché sicuramente sono tornata al mio lavoro quotidiano con qualcosa in più e la voglia di partire ancora.

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Cosimo Bleve, chirurgo pediatra

è da poco terminata la missione in Tanzania e, come ogni volta, ci si trova catapultati in una realtà che suscita un tumulto di emozioni e riflessioni. Ogni volta come se fosse la prima volta. Per me, questa rappresenta l’ottava missione negli ultimi cinque anni. Missioni… o meglio esperienze di vita.

Ciò che ti spinge come volontario è la possibilità di far qualcosa per le persone meno fortunate e, nel nostro caso, per quella parte più fragile di queste popolazioni che rappresenta il futuro delle stesse: i bambini. La Tanzania è uno dei Paesi più poveri al mondo. Il 60% della popolazione vive con meno di 2 dollari al giorno e con un alto tasso di mortalità infantile nei primi 5 anni di vita. Durante la missione abbiamo collaborato con Associazione Ruvuma nell’Ospedale di Mbweni.

Abbiamo trattato chirurgicamente 39 bambini in poco più di due settimane, non un grande numero in rapporto alla popolazione tuttavia non solo un numero, ma Piccoli Pazienti per i quali si è potuto far qualcosa. Quello che colpisce di questa popolazione è che, nonostante la povertà, sia così ricca di dignità… nel vivere la malattia, nel dormire e mangiare per terra aspettando il proprio turno; nell’affrontare i sacrifici di un lungo viaggio (a volte giorni di cammino) per raggiungere l’ospedale.

Alla gioia e gratitudine nei volti dei genitori e bambini operati si è associata però la rassegnazione compita nei volti di quei pochi pazienti che non abbiamo potuto operare. Nell’ambito dello screening effettuato quotidianamente è stato necessario, infatti, con rammarico e con coraggio, prendere la decisione di non procedere chirurgicamente. è sempre difficile comunicare alla famiglia tale decisione ma, in questa missione, è stata più dura rispetto alle altre, di fronte a due piccole pazienti affette da gravi malformazioni congenite e tre adolescenti. Guardare negli occhi una piccola bambina di 14 mesi affetta da estrofia vescicale e sua madre, e comunicare che la cosa migliore è quella di non procedere con un intervento, ti fa sentir piccolo e impotente.
Si tratta di una grave malformazione della parete addominale che avrebbe richiesto, data l’età, più interventi impossibili da. Una malformazione invalidante soprattutto dal punto di vista sociale perché condanna all’emarginazione, considerata, oltre che una disgrazia,una vergogna da nascondere.

Pur sapendo che non si può cambiare la vita di tutti e che sono molte le persone a cui serve aiuto, abbiamo dato gioia a 39 bambini. è vero sono solo 39, solo una goccia nel mare, ma in fin dei conti non è formato da miliardi di gocce il mare? è per questo che un giovane medico come me, cerca di dare il suo contributo per aiutare chi è più sfortunato.

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Ambrose Temu, dottore

Fin dal giorno in cui Associazione Ruvuma Onlus è diventata operativa a Mbweni con l’Ospedale Santa Maria Nascente, uno degli obiettivi fondamentali, oltre a fornire assistenza sanitaria, è sempre stato quello di formare medici locali all’autonomia professionale.
Questa parte viene fatta inviando periodicamente sul posto medici italiani che affiancano quelli tanzani. Ed è grazie ad Associazione Ruvuma che ho avuto il privilegio e l’opportunità di frequentare un Master triennale alla Muhimbili University, l’università cui è collegato uno dei migliori ospedali di Dar Es Salaam.

Da qualche anno lavoro nell’ospedale di Mbweni, ospedale che ha affrontato una domanda in continua espansione per la richiesta di assistenza sanitaria. Di conseguenza, la qualità del servizio offerto deve essere in grado di offrire la migliore efficienza e know-how per i pazienti sempre più numerosi.
Periodicamente, nell’ospedale di Mbweni arrivano diversi medici specialisti dall’Italia, che condividono con noi le loro competenze. Essi sono abituati ad operare in ambienti che offrono sofisticate apparecchiature e tecnologia di ultima generazione, cosa che non sempre è disponibile da noi. Inoltre, alcuni di essi sono portatori di conoscenze specialistiche.

In Tanzania, invece, il training è multidisciplinare, e fornisce nello stesso percorso formativo che include le diverse specializzazioni. E il risultato è una minore competenza. Alla luce di tutto questo, chiedere al Dr. Rodriquez e al Dottor Travaglini l’opportunità di proseguire i miei studi non è stata una decisione difficile da prendere.
Grazie a loro, ho potuto aggiungere ai miei studi universitari altri tre anni di studio con un Master in Chirurgia Generale, cosa che mi darà la possibilità di tornare all’Ospedale di Mbweni e offrire prestazioni di maggiore qualità.

Questo corso per me ha significato molto, è stata l’opportunità d’oro che ha riempito il mio cuore con molte nuove ispirazioni. In Italia, quando si pensa a come funziona un ospedale, un po’ tutti hanno nell’immaginario comune la popolare serie televisiva E.R. Medici in Prima Linea. Risulta già più difficile farsi un’idea della quotidiana realtà operativa di un ospedale in Tanzania. Noi abbiamo a disposizione risorse che scarseggiano, sia in termini umani che di attrezzatura. A volte, può diventare un problema anche solo fare la diagnosi corretta.
Per fare un esempio, solamente tre ospedali governativi nel Paese possiedono uno scanner per fare una TAC. Solo pochi ospedali hanno a disposizione un’ambulanza.

Ma per me, lavorare nell’ospedale di Mbweni è fantastico. è una struttura semplice, con pochi posti letto e tre sale operatorie. Il personale è umile e pieno d’amore e di rispetto, verso tutti i pazienti.

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Jeannine Van Den Heuvel, medico specializzata in Pediatria-Neonatologia

Poter fare un’esperienza professionale in Africa è un sogno nel cassetto che ho da più di 10 anni. Nel 2008 ho deciso di cominciare a fare qualcosa di pratico per poter realizzare questo sogno in modo concreto. E così è stato! Durante quell’anno ho seguito un corso di Medicina Tropicale a Torino e dopo un anno ho finalmente partecipato alla mia prima missione in un ospedale africano: il Tanguiéta Hospital nel Benin.

Lo scorso novembre 2009 è stata la volta della mia seconda esperienza africana. Grazie all’amico e collega Dottor Carlo Molino, un chirurgo di Napoli, ho avuto l’opportunità, di visitare per la prima volta l’ospedale di Mbweni, in occasione dell’inaugurazione del nuovo reparto di maternità. Lì ho conosciuto anche il Dottor Giuseppe Travaglini, responsabile sanitario dell’ospedale e il Dr. Rodrigo Rodriquez, il fondatore dell’associazione Ruvuma e colui che ha concepito il bellissimo progetto di Mbweni. Con entrambi mi sono trovata subito in perfetta sintonia, ho capito che condividevamo lo stesso impegno per l’affermazione del diritto alla salute.

L’esperienza di Mbweni è stata particolarmente formativa, da un punto di vista umano e professionale. In particolare ho capito che in molte zone dell’Africa, la maternità e la Pediatria hanno ancora tante lacune. Infatti quando sono partita, pochi giorni dopo il mio arrivo in Italia avevo già voglia di ritornare per aiutare, ma soprattutto per “insegnare” e formare il personale medico che lavora nel reparto di maternità.

Così ad aprile sono ritornata a Mbweni con diversi protocolli e linee guida relativi alle aree specialistiche di Pediatria e Neonatologia definiti dall’Organizzazione Mondiale della Sanità. Insieme ai medici locali li abbiamo studiati, adattandoli naturalmente alla realtà locale.
Ho anche avuto il piacere di affiancare, cercando di trasmetterle più nozioni posssibili, una collega tanzana, la Dottoressa Rehema che presto diventerà una pediatra.

Quella di Mbweni è stata un’esperienza che non dimenticherò mai più e che auguro a tutti i miei colleghi di poterla fare prima o poi nella vita.

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Ester Galli, ostetrica

Ho sempre voluto fare un’esperienza in Africa. Le emozioni sono molto diverse, spesso si alternano sentimenti contrapposti in modo repentino. Sicuramente le relazioni che si stabiliscono con le donne sono molto speciali. Si basano principalmente sul linguaggio non verbale, vista la difficoltà della lingua.

Non scorderò mai l’incontro con una giovane donna impaurita dal travaglio e dal parto, che con estrema semplicità, chiamandomi “amica”, mi ha chiesto di rimanere a dormire con lei sotto l’albero tutta la notte, solo per farle compagnia. Lavorare in un ospedale africano è completamente diverso rispetto a uno italiano. Non credo sia paragonabile in nessun aspetto se non nell’etica professionale che ogni singolo soggetto dovrebbe mettere in atto.

La cultura così diversa non consente un vera ospedalizzazione delle cure, nel senso che non è la gravida che sta al ritmo delle visite e dei controlli, ma è l’ostetricia che si applica alle richieste d’aiuto delle donne. Così spesso ci si trova in situazioni cliniche che con visite seriate sarebbero state risolte in diverso modo.

Sono due mondi molto diversi che si incontrano, due mondi che hanno molto da insegnare l’uno all’altro. La semplicità e la spontaneità dei rapporti umani, sia tra colleghi (medici, infermieri, ostetriche, personale di pulizia) sia con le persone che chiedono aiuto in ospedale sono veri, sono qualcosa di speciale. Non vi è mai la sensazione che siano forzati o di facciata, ci si saluta con gioia, si è felici se l’altra persona sta bene.

Anche in Italia spesso si creano delle ottime equipe di lavoro, dove si creano veri rapporti di amicizia, ma qui è tutto diverso. Gli eventi che riempono le giornate sono vissuti, non sono mai un qualcosa che “è accaduto al lavoro”, vi è sempre un proseguo nella propria mente, vi è un legame. Credo che le principali differenze stiano proprio in questo: nel vivere la propria professionalità e non nel fare la propria professione.

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Federica Malberti, ostetrica

Da quando sono qui ho vissuto tante situazioni, cliniche e umane che non credo avrei potuto sperimentare in Italia. Una cosa che mi colpisce sempre è la forza di queste donne durante il travaglio e il parto. La forza e la dignità con cui, in silenzio e da sole, affrontano la fatica senza mai chiedere nulla. Si stupiscono quando stai con loro ad assisterle, prendendo il posto del compagno o del parente. Ti chiamano “dada” (che in swahili vuol dire sorella) e quando stai per andare via ti pregano di stare lì ancora un po’ con loro.

Sono poche le parole che ci si scambia, perché capiscono l’inglese, se non rare eccezioni, e noi di swahili conosciamo solo alcune semplici frasi, però ci si comprende con i gesti, con lo sguardo, il che crea una relazione ancora più forte. è molto diverso lavorare in un ospedale africano rispetto a uno italiano.

Di certo qui non c’è l’ospedalizzazione e livello di cure prestate che c’è in Italia e si vivono situazioni di vera emergenza, anche a causa della mancanza di alcuni presidi, strumenti e farmaci, conoscenze, ma anche dalla diversa cultura, che è uno dei punti cardine della differente gestione di un ospedale italiano rispetto a uno africano. Sono contenta di aver avuto la possibilità di trascorrere un periodo così lungo a Mbweni perché alcuni aspetti, soprattutto culturali, si possono comprendere solo dopo mesi di osservazione e ascolto.

Un’altra cosa che ho notato è il diverso clima lavorativo e la relazione umana. Qui mi sono sentita subito accettata, a partire dal semplice fatto che tutti ti salutano sempre, con il sorriso, e ti chiedono come stai. Non si sente il rapporto di superiorità tra un medico e una cleaner o un’infermiera. Nessuno urla o alza la voce. Tutti parlano in modo calmo, educato e ringraziano, sempre. Cosa che anche da noi in Italia si dovrebbe imparare.

Bisognerebbe provare a stare qui per capire davvero quello che scrivo. L’africa è difficile da raccontare. Solo vivendola, con la voglia di scoprirla realmente e con umiltà, si possono cogliere tutte le sue sfaccettature.

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Floriana Monti, volontaria

Da qualche tempo mi dedicavo alla raccolta fondi per l’ospedale di Mbweni di Ruvuma e cercavo di dare il mio contributo pensando che sarebbe stato solo una goccia nell’oceano. Ero convinta che i poveri fossero le persone che non possiedono beni materiali, perchè non avevo ancora capito che i poveri siamo noi, con la nostra coscienza sopita dalla cosidetta civiltà, che non siamo capaci di sorridere, che ogni giorno facciamo una vita frenetica al solo scopo di accumulare ricchezza, non sappiamo godere delle cose semplici, come, ad esempio, il sorriso di un bambino.

Tutto ciò, fino a quando ho deciso di andare a Mbweni, dove, da subito, mi sono sentita come a casa mia. Mille parole non basterebbero per descrivere l’emozione che ho provato quando, il primo giorno del mio soggiorno tanzano, un bambino del nostro asilo si è avvicinato, in silenzio mi ha preso la mano e mi ha sorriso; poi ne sono arrivati a decine, fantastici, con una luce speciale negli occhi, quella che hanno solo i bambini e risplende oltre loro nel cuore di chi li guarda. Quella parte d’Africa in cui ho avuto la fortuna di soggiornare mi è apparsa diversa dagli altri luoghi in Africa che avevo visitato da turista, perchè non mi ero mai addentrata nella vita di chi ci vive, nelle loro case, non avevo visto la gente malata che tutti i giorni frequenta l’ospedale, con problemi e patologie a me quasi sconosciute.

Al ritorno dal primo viaggio, mi sono ripromessa di tornarci ma mai avrei pensato che la seconda volta arrivasse tanto presto, e invece è andata così, dopo meno di due mesi ero ancora là, e poi ancora altre volte, per periodi sempre più lunghi. Nei miei pensieri ci sono spesso l’Ospedale e i continui progetti per lavori di ampliamento in cui ormai mi sento coinvolta.

Ho anche avuto modo di fraternizzare con diversi volontantari che si sono avvicendati negli stessi periodi in cui ero laggiù, persone tutte speciali, sia dal punto di vista umano che professionale. Li ho visti lavorare in sala operatoria giorno e notte senza lamentarsi mai, anzi a volte li ho sentiti rammaricarsi del poco lavoro ed io cercavo di preparare loro il pranzo e la cena come meglio potevo con le materie prime che riuscivo a trovare.

Ormai mi sento profondamente legata a quel posto e alla sua gente e non smetterò mai di dire “grazie Mbweni” per tutto quello che mi hai dato e continui a dare. E grazie a Ruvuma, per le opportunità che mi hai dato di fare queste belle esperienze e di conoscere della gente meravigliosa.

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Daniel Muganyizi, direttore Ospedale Santa Maria Nascente di Mbweni

Ho accettato l’incarico nell’ospedale di Mbweni perché avevo voglia di affrontare una nuova sfida. Quello di Mbweni, da tempo, è già un ottimo ospedale dove si alternano periodicamente bravissimi dottori italiani. Può contare anche su attrezzature efficienti, grazie al sostegno dell’Associazione Ruvuma Onlus.

Il mio obiettivo adesso, è fare in modo che questo ospedale possa ulteriormente distinguersi in tutto il Paese, diventando un punto di riferimento anche per pazienti che vivono in aree più lontane. E questo ospedale ha tutto il potenziale per diventarlo, sia per la qualità delle prestazioni sanitarie che per la competenza di chi ci lavora. Un’altra sfida sarà quella di rendere tutto questo disponibile a costi che la popolazione sia in grado di affrontare.

Naturalmente, considerata l’area geografica, ci sono diverse criticità da gestire per rendere sempre più accessibile alla popolazione l’accesso a cure e sanità. Il punto debole dell’ospedale Santa Maria Nascente di Mbweni, per esempio, è il posto dove sorge, in termini di accessibilità dei trasporti che vi arrivano, visto che il servizio pubblico degli autobus, i dala dala, termina alle 20, e la distanza dalla strada principale Dar Es Salaam – Bagamoyo è di sei chilometri. Fortunatamente questa strada è stata di recente allargata e sono stati fatti lavori di miglioramento sulla viabilità.

Eppure, nonostante le difficoltà che rimangono per raggiungere l’ospedale, i pazienti di Santa Maria Nascente sono sempre più numerosi, grazie anche al rapporto che garantiamo tra costi (i pazienti più poveri non devono pagare) e la qualità delle cure offerte.

Ma non solo, quando parlo di servizio non mi riferisco solamente a quello medico ma anche l’attitudine e l’approccio umano da parte di tutto il personale e delle caritatevoli Suore verso tutti i pazienti. Detto questo, anche se la mia esperienza in questo ospedale è appena cominciata, posso già dire che la prima impressione è assolutamente positiva!

Certo, c’è ancora molto da fare per poterlo migliorare. Ma questo ospedale, come dicevo prima, ha tutto il potenziale per diventare uno dei più efficienti della zona, anche grazie alla fede, al coraggio e alla forza di tutte le persone che, già da molto tempo, offrono ogni giorno sia sul campo che dall’Italia.

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Laura Mezzasoma, volontaria

Giorno prima della partenza per Mbweni, il momento più duro..pesare le valigie tenendo le dita incrociate perché non superino il peso consentito.Abbiamo un carico particolare: lastre per mammografie, medicinali e… lei… Ann!! Abbiamo deciso di portarla con noi, farà anche lei il suo primo lungo viaggio…La nostra “little Ann”.Non credo faranno storie all’ aeroporto, ma se cosi fosse siamo pronti a liberarci di qualsiasi altra cosa, ma non di lei!!Ann, carnagione chiara, peso modesto, 4/5 kg , di un materiale resistente e soprattutto funzionale!

Ann non e altro che un ” mezzo busto” sul quale il personale dell’ospedale di Mbweni si eserciterà per mettere in pratica le norme di primo soccorso.Proprio così, stiamo andando a Mbweni perché il medico che è con noi ha organizzato un corso di BLS che terrà presso l’Ospedale, per mettere tutti nella condizione di sapere cosa fare al momento del bisogno. Ed Ann e’ fondamentale!!Arriviamo a Mbweni e subito cerchiamo di capire al meglio come poter spiegare il tutto…diapositive preparate sia in inglese che in Swahili, e passiamo la prima serata a ripassare. Prove generali fatte. Forse un inglese un po’ maccheronico ma per il resto tutto ok!Siamo pronti!!

Il mattino seguente la sala di attesa si trasforma: lenzuolo appeso alla parete per proiettare le diapositiveAnn stesa su una panca Mascherine e ambu presenti. Medico in prima linea. Assistenti pure.E si comincia! Sala gremita di infermieri, medici e non solo. Tutti sono incuriositi. Grazie a Dotto, un medico anestesista che si è reso disponibile a una traduzione simultanea, tutti, uno ad uno, provano a mettere in pratica su Ann le nozioni appena sentite. Non sono mancate le risate nell’ assistere alla scenetta della corsa per salvare Ann, che, ahimè, credo sia morta più volte! Ma ovviamente tutto si è ripetuto fino a quando tutti i partecipanti, senza esclusione alcuna, sono riusciti a salvare egregiamente la vita alla nostra Ann!!

Il corso termina, l’attestato viene consegnato, e via, pronti per proseguire le lezioni nei giorni seguenti!Abbiamo portato a termine il nostro compito, e, visto il consenso dei partecipanti, direi in modo strepitoso!Brava Ann e bravi tutti! Ora, ahimè, è arrivato il momento di ripartire, questa volta ce ne andremo con un bagaglio più leggero, perché Ann è rimasta a Mbweni, pronta a nuove dimostrazioni, e io me ne torno con un piccolo dizionario di Swahili, e chissà mai se la prossima volta potrò sostituire Dotto nella traduzione!

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Elena Monti, studentessa di medicina

Questa mattina, come tutte le altre mattine da due settimane a questa parte, suona la dolce sveglia dei bimbi dell’asilo: number one, two, three… É l’ultimo giorno per me qui a Mbweni. Sono arrivata due settimane fa, con mia zia Floriana. Era tanto tempo che volevo venire all’ospedale S. Maria Nascente dell’associazione Ruvuma. Come studentessa di medicina ero incuriosita da una realtà molto diversa dalla nostra, da come potesse essere la vita africana e soprattutto la vita in un ospedale africano! Finalmente quest’anno è arrivata l’occasione giusta! Non sapevo proprio cosa aspettarmi.

Ma di certo quello che ho trovato qua è stato molto al di sopra della mia immaginazione! Quando siamo arrivate in aeroporto, ad aspettarci c’era Akili, uno degli autisti dell’ospedale. Akili conosce un po’ di italiano e di inglese, li sta imparando per potere comunicare con i volontari che ogni anno arrivano a Mbweni, all’ospedale.
La sua spontaneità e la sua contagiosa risata mi fanno entrare immediatamente nello spirito africano.

Mbweni è un piccolo villaggio, non molto lontano dalla capitale. Una strada, asfaltata da poco tempo, percorre tutto il villaggio; attorno a questa si sviluppano capanne, bancarelle di vario tipo, si inizia a vedere anche qualche casa in cemento. Ed ecco l’ospedale, punto centrale nel villaggio. All’ingresso i guardiani Masai ci aprono un cancello improvvisato: una corda tesa da parte a parte!

L’ospedale di S. Maria Nascente è costituito da vari ambulatori, reparti di degenza, maternità e due sale operatorie. Tutti i giorni tante persone dai paesi vicini, raggiungono Mbweni e il suo ospedale. Gli operatori, tutti locali, lavorano con entusiasmo e competenza. Il mio principale aiuto come volontaria é stato quello di aiutare Suor Generosa, insieme a Federica, altra volontaria, nell’organizzazione del magazzino e farmacia. Conosciamo così Salvatore, tutto-fare che con strumenti semplici riesce a risolvere qualsiasi problema e a soddisfare ogni nostra richiesta. Come tutti i tanzani, Salvatore segue la filosofia del “Pole Pole”, cioè facendo le cose “Piano Piano” si riesce a fare tutto con successo! Quanto è diverso dalla nostra cultura… ma quanto è vero!

Qualche giorno lo trascorro in sala operatoria. Le infermiere di sala sono tutte molto competenti: Regina, Lucy, Marisela. Gli anestesisti, Dotho, il mago delle anestesie spinali, e Barbara sono davvero in gamba. Infine c’è Ambrose, il chirurgo, che ha studiato all’estero, grazie a Ruvuma, e padroneggia una tecnica molto buona. L’accoglienza che mi hanno riservato è unica. In Italia nei periodi di tirocinio pratico obbligatorio previsto dalle università, mi è capitato di trascorrere del tempo in sala operatoria.

Tipicamente noi studenti siamo relegati lontani dal tavolo operatorio, cercando di vedere qualcosa di quello che si sta facendo, senza alcun tipo di opportunità di poter partecipare attivamente all’operazione. Qui, a Mbweni, non solo mi permettono di vedere tutto da vicino, fare domande, ma mi fanno anche partecipare attivamente a un intervento. Non avendo mai fatto nulla di simile mi trovavo in difficoltà. Regina, nonostante conosca poche parole di inglese, è riuscita a trasmettermi tutte le informazioni necessarie per aiutare Ambrose nell’operazione. Questo momento rimarrà sempre nella mia memoria. Così come quella sera in cui è arrivato il camper mandato dall’Italia, attrezzato per fare mammografie. Ci abbiamo lavorato molto per metterlo a posto ma alla fine il risultato è stato appagante.

Ringrazio l’associazione Ruvuma per avermi dato l’opportunità di vivere un’esperienza simile. Ora mi aspetta la continuazione del viaggio, nei parchi del nord della Tanzania, ma credo che, quando sarò laureata, mi rivedrai, bella Mbweni!

Barbara Contini, Presidente della Fondazione Italia – USA

quel giorno a Dar c’era IL sole ed il mare era calmo. i bambini gridavano di gioia nel vederci arrivare e correvano ovunque nel giardino dell’ospedale facendolo sembrare un parco giochi.l’aria era tersa ed i volontari erano felici di lavorare per abbellire l’ospedale. tutti sorridevano ed alcuni anziani ci seguivano con lo sguardo mentre ci accingevamo ad entrare.

Il cardinale era gia li, vestito di rosso, con alte istituzioni locali e parlamentari che venivano dalla capitale. la gente si affollava verso un cortile pieno zeppo di sedie e di gente locale che ci guardavano con attenzione ed anche ammirazione. iniziammo la celebrazione di quella bella giornata, che dava a tutti la possibilita di avere una nuova area per il materno infantile, un sacrificio grande ma un grandissimo risultato, per un ospedale che nacque da poco piu di una infermeria ed ora era diventato un grande centro sanitario della zona e ben conosciuto a Daar.

L’evento della giornata è ancora un ricordo forte, cosi come lo fu il caldo ed il sudore che si sentiva sulla pelle, dovendo presenziare per lungo tempo sotto il sole cocente e davanti alla gente felice di poter avere una nuova area del centro. eppure nonostante il caldo, la felicita era a mille e sapere di poter dare felicità alla gente che abita li, è qualcosa che non ti puo dare nulla al mondo. dare è sicuramente il dono piu bello. Grazie Mbweni!

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Andrea Franchella, Direttore Unità Operativa di Chirurgia Pediatrica

Il Prof. Andrea Franchella, Direttore dell’Unità Operativa di Chirurgia Pediatrica dell’Azienda Ospedaliera S. Anna di Ferrara, nonché responsabile di missioni di chirurgia pediatrica nei Paesi in via di sviluppo, ha condotto dal 15 dicembre al 4 gennaio una missione chirurgica nel nostro ospedale. Insieme a lui, anche il Dottor Fausto Zanotti (nel progetto Leader Anestesista), il chirurgo pediatra Dottor Cosimo Bleve e la Dottoressa Giuseppina Vozza (nel progetto 2° anestesista).

d. Ho letto, tempo fa, su Il Resto del Carlino, una Sua intervista che il giornalista aveva intitolato “Con il bisturi regala il sorriso a bambini disagiati”. Lei è riuscito a portare in Italia l’attenzione su cosa significhi per un bambino che vive in un paese in via di sviluppo essere affetto da labio-palatoschitosi. Ogni anno più di 165.000 bambini nascono con malformazioni del volto.
La maggior parte di loro non ha accesso alle cure. Questi bambini hanno difficoltà a nutrirsi normalmente, non riescono a parlare, non possono andare a scuola o trovare un lavoro Nascere con una malformazione del volto in posti come l’Africa, inoltre, è un problema che determina emarginazione e isolamento.
Molti bambini nati con questa patologia vengono uccisi o abbandonati, l’intera famiglia spesso viene esclusa dalla vita sociale della propria comunità perché considerata maledetta coma la stessa malformazione.

Andrea Franchella: Proprio per questi motivi, le missioni come quelle che periodicamente facciamo – anche appoggiandoci all’ospedale di Mbweni in collaborazione con Associazione Ruvuma Onlus – sono di vitale importanza per la popolazione che vive in quelle aree. Basta veramente un intervento di soli 45 minuti per permettere ad un bambino di tornare a sorridere… 45 minuti che cambiano veramente la vita di una persona

d. Ci racconta come è stata la sua ultima esperienza all’ospedale di Mbweni. Quanti bambini è riuscito ad operare?

Andrea Franchella: In questa missione, organizzata dalla onlus Chirurgo e Bambino di Ferrara, non abbiamo avuto pazienti con labio-palatoschisi ma ci siamo occupati di patologie di chirurgia generale ed urologica, portando a termine 39 operazioni chirurgiche, la maggior parte di esse su bambini sotto i 16 anni.

d. In queste missioni, oltre a eseguire interventi chirurgici, lavorate anche con i dottori locali?

Andrea Franchella: Lavoriamo sempre attivamente con i medici e con il personale tecnico ed infermieristico del posto, alla fine, l’obiettivo è anche quello di trasferire conoscenze e rendere ilpiù possibile autonomi. In questa missione, la preparazione dei pazienti all’intervento, la gestione della sala operatoria e le cure post operatorie sono state affidate esclusivamente agli infermieri locali.
La sterilizzazione dello strumentario chirurgico, per esempio, e la strumentazione in sala operatoria era a carico delle scrub nurses (strumentiste locali). Gli anestesisti collaboravano con il tecnico anestesista dell’ospedale (nella maggioranza degli ospedali africani non è presente un medico anestesista bensì un tecnico di anestesia).
Nella seconda parte della missione gli interventi sono stati condotti solo con l’ausilio del tecnico anestesista (Youssef Barabara). I medici locali hanno collaborato con noi, in particolare il Dott.Fabrizio Direttore sanitario della struttura (fino al 31 dicembre 2013) sia per la parte clinica sia per quella operatoria. Ottima la collaborazione di Sister Paschal, la Direttrice amministrativa dell’ospedale, di origine indiana ed appartenente all’ordine delle DMI.